Progetto per Montalcino

Jannis Kounellis, 2001

Il pittore ha sempre avuto questa folle attrazione verso la felicità. Un’attrazione tanto più folle perché senza motivo. Tutta la produzione di immagini è una folle corsa alla felicità.
— Jannis Kounellis intervista con Pier Luigi Tazzi, “Arte all'Arte VI”, 2001

Jannis Kounellis è stato invitato da Pier Luigi Tazzi a partecipare alla VI edizione di Arte all’Arte. Per l’occasione ha realizzato un’opera a Montalcino.

“Arroccata sulla sua collina Montalcino guarda la distesa abbacinante in ogni stagione delle Crete senesi. A questa estensione orizzontale Jannis Kounellis contrappone, in aperta dialettica, un suo sprofondamento verticale. Penetrare la superficie, attraversare le stratificazioni di un tempo geologico, toccare il fondo, quel fondo di nigredo che l’alchimista medievale dava come stadio iniziale di ogni processo alchemico e salvifico.

Di là poi emergere in superficie, far risalire da quel fondo, attraversando gli strati della storia, questa volta non solo geologica, ma politica, ideologica e culturale, il materiale dell’umana speranza nella conoscenza e nell’azione, come il magma che si riversa dall’apertura di un vulcano in attività. Come altre volte nell’opera di Kounellis, si tratta di dar voce al silenzio, che è, prima di tutto, silenzio della storia, e la voce ha allora un tono eccessivo. Il silenzio imposto una volta virato in voce provoca un eccesso.

Kounellis ha scelto per questo suo progetto il pozzo, componente essenziale della città antica, emblema di una socialità arcaica su cui insiste ogni principio di civiltà. Dal pozzo emerge un’enorme massa di occhiali, gli strumenti per vedere, di cui la civiltà moderna si è dotata per vedere meglio, per conoscere più nei dettagli, per misurare il mondo e le cose, e a loro volta emblema di una conoscenza altrettanto sofisticata e comunque in grado di distinguersi da ogni altra forma di conoscenza  ingenua e primitiva.

Ma allo stesso tempo strumento fragile, segno di una vulnerabilità a confronto di ogni stato o atteggiamento ferino. Fin qui la costruzione, l’elaborazione poetica della frase. Ma l’opera non si esaurisce nell’atto della sua costruzione e si apre a domande che essa stessa suscita e lascia senza risposta. A quale delle numerose, a volte tragiche, narrazioni che segnano il tempo della nostra storia, potremmo associare quest’immagine? Quale forma di giudizio l’opera implica? Quale esito indica? Ci affacciamo al pozzo per vedere gli strumenti per vedere, una massa che affonda e che sale.”

Pier Luigi Tazzi, “Arte all’Arte VI”, 2001

Intervista di Pier Luigi Tazzi

Qual è il senso di quest'opera, che è del tutto particolare sia nell’ambito del tuo lavoro che nel quadro del progetto di Arte all'Arte di quest'anno?

Sono partito da quelle opere fra la fine del 1967 e il 1968 in cui avevo utilizzato ammassi di carbone. Era un'idea tragica corale. Qui continuo quella linea di tradizione. Qui c'è la profondità. E’ diventato qui molto evidente il rapporto fra l'opera e chi l'osserva, forse perché la condizione dell'artista è cambiata. Il pozzo mette in evidenza una condizione nuova che impone la verticalità.

Dunque verticalità contro orizzontalità. Il pozzo è discesa in verticale e anche elevazione in superficie.

E’ visione particolare da sopra a sotto. È come una scena. C'è questo buco: è la maternità più profonda, ma è anche infernale.

Dentro il paesaggio toscano, che si dà come paradiso mitico e insieme culla originaria della cultura occidentale, tu ferisci la superficie e vai sul fondo.

Il pozzo è tipico del paesaggio toscano. Quello che io porto è l'idea di profondità, non quella di superficie, e insieme l'idea di penombra, di inevitabile forza di chiaroscuro.

E gli occhiali?

Gli occhiali sono legati agli occhi, al vedere.

In questa tua opera forza e debolezza trovano un loro punto di confluenza: profondità, verticalità, la struttura potente del pozzo indicano una forza, mentre il materiale che lo riempie indica in qualche modo una debolezza, o comunque una fragilità.

Tutte e due queste condizioni ne fanno una. E in questa nuova condizione il materiale non è separato dal pozzo. E si ha una situazione sconvolgente. Prima di tutto si sconvolge il rapporto fra i vari elementi compositivi tutto si svolge sulla superficie, per quel che mi riguarda come pittore, ma è una superficie profonda. È come vedere le tele di Pollock dalla parte di Pollock: da sopra. È stato questo che mi ha permesso di occupare il pozzo. Segna uno svolgimento. Ho compreso la fine della civiltà tonale e di quella borghesia che l’ha garantita. Dopo due guerre mondiali è ridicolo pensare alla tonalità. Non c'è il rapporto critico fra l’icona da cavalletto e l'artista. L'artista è uno sconvolgente ballerino che si muove su un territorio vasto. Quella che ho vissuto è l’Europa del dopoguerra e l’ho vissuta da ballerino spostandomi di qua e di là sospinto da motivi da cui ero attratto. Ho capito che il mondo di prima era finito e non aveva alcuna possibilità di ritornare. Era finita la centralità compositiva e quindi si trattava di vivere una pittura a dir poco completamente nuova.

Oggi si ripresenta l'urgenza dell'arte, di quest'arte che per tanti anni non dico che si sia abbassata al livello puro e semplice di produzione per il mercato ma è stata dominata dal mercato. La diffusione dell'arte è stata in funzione dell'espansione del mercato, e in particolare di quel particolare tipo di mercato che è quello occidentale. Anche se gli artisti non si dimostravano direttamente succubi di questo principio, nella cultura dominante l’abbinamento arte e mercato era immediato. Oggi assistiamo a un’espansione che porta al dialogo culture diverse impossibile fino ad appena dieci anni fa. Rivestita di esotismo l’arte, cosi come l’intende la tradizione dell’Occidente, aveva poco da dialogare con quelle culture. I fatti di quest'ultimo decennio, ivi compresi quelli direttamente messi in opera dagli artisti, anche di diversa cultura e di differente formazione, hanno stabilito tutta una serie di rapporti costanti di dimensione mondiale in cui l’arte ha assunto una centralità, non di per sè, ma rispetto alla cultura dell’uomo in questa fase della sua civilità.

Non bisogna dimenticare che Les Demoielles d'Avignon nascono all’interno di una profonda considerazione di quella che Picasso definiva come “arte negra”. Il problema è di sapere chi parla. Se si mischia tutto, si rischia di favorire il mercato. Bisogna che nascano dappertutto dei veri interlocutori che costituiscano a loro volta delle centralità culturali. Il traffico informe di persone non tende alla libertà, tende al contrario all'ibridazione, che a sua volta serve a far fiorire una letteratura coloniale che raccoglie si tutta questa gente, ma non le dà forma, tanto meno di persona. I pittori del passato europeo, a partire da Giotto, erano delle centralità culturali. Tanto è vero che Raffaello si trova da morto a stare nel Pantheon insieme ai re d'Italia. Anche se Raffaello è beninteso superiore a loro, questa è un'indicazione della centralità della figura dell'artista. Bisogna seguire questa indicazione, che è benedetta. Per uno poi che fa l'artista è estremamente conveniente. È così ed è inutile nascondercelo. Non posso essere cinico su questa che è anche la mia tradizione. È un'indicazione doverosa: è inutile pensare all'arte come a qualcosa che non paga mai. L'arte deve pagare. Non si tratta di moralismo: l'arte ha un suo peso e deve pagare.

Dunque si deve sapere la posizione di chi parla, sottraendolo a ogni astrazione.

Bisogna sapere chi e che cosa ha fatto, perché altrimenti si favorisce il trasformismo. lo sono artista, vengo da lì, ho fatto quello che ho fatto, tutto presente in maniera retrospettiva. lo sono realmente nato e voglio tener presente che uno nasce naturalmente per delle ragioni certe, per gli incontri certi, che si vedono, incontri e ragioni. E’ inutile star lì a mistificare. Se ci sia stata o meno una formalizzazione chiunque lo può vedere: è di dominio pubblico. Un artista è un uomo trasparente, più di altri, perché si vede tutto di lui, anche gli sbagli, che ci sono. Si vedono e ci sono. Bisogna non aver timore a presentarsi come si è.

Questa assunzione di una consapevolezza della propria responsabilità umana, individuale e intellettuale è una della grandi acquisizioni della cultura europea.

Agire senza perdere la conoscenza. Agisci sempre per ragioni precise: meriti allora la sopravvivenza. Perché puoi non meritarla. Bisogna giustificare la sopravvivenza con la propria lucidità. Se ciò viene a mancare, che cosa conta la forza o la non forza? Siamo della grande famiglia degli artigiani, gente dalla visione schietta. Il pittore vede il muro e vuole che gli altri lo vedano per quello che vi ha fatto, non in maniera letteraria.

L'arte è oggi l'unica pratica e disciplina umana che si occupa della felicità in senso positivo. Tutte le altre, anche se positive, si occupano di lenire il dolore, di sanare le contraddizioni, di eliminare il male e le ingiustizie, di allontanare o mitigare le inevitabili perdite, ma operano sempre in presenza di questo negativo.

L'eroe è di origine dionisiaca: non è apollineo, come sembra. La gioia come motore, come impulso. Il pittore ha sempre avuto questa folle attrazione verso la felicità. Un'attrazione tanto più folle perché senza motivo. Tutta la produzione di immagini è una folle corsa alla felicità.

“Arte all’Arte VI”, 2001

Altri progetti di Arte all’Arte VI

Credits
Jannis Kounellis
Senza Titolo, 2001, Montalcino
Arte all’Arte 2001
courtesy Associazione Arte Continua – San Gimignano (SI)
foto Attilio Maranzano.