Florian Matzner & Angela Vettese, Curators, 1998-1999
Una conversazione tra Florian Matzner e Angela Vettese
Florian Matzner: Poche sono le discussioni nell'ambito dell'arte ad essere state così controverse ed animate come quella sul significato e le possibilità della cosiddetta "arte nello spazio pubblico".All'euforia degli anni cinquanta e sassanta, durante i quali anche l' "Arte applicata all'architettura" ebbe ampia congiuntura, seguì all'inizio degli anni Settanta la delusione per i risultati dei passati tentativi, essi erano poco interessanti dal punto di vista artistico, non avevano migliorato l'architettura di per sè solo discreta, nè costituivano un particolare godimento per il pubblico interessato all'arte contemporanea. Nonostante ciò con la Land-Art, la Minimal-Art e parte della Pop-Art si era realizzata un'arte che aveva lasciato il tempio sacro del Museo con lo scopo dichiarato di cercare il dialogo con il mondo circostante, con la società, predestinandosi così a realizzare un fruttuoso intervento sullo Spazio Pubblico. Allo stesso tempo i direttori di museo ed i curatori di mostre si resero conto che se si voleva propagandare una conoscenza dell'arte contemporanea, non bastavano più le tradizionali mostre museali, che tra l'altro venivano viste solo da un pubblico scelto già di per sè interessato, ma che bisognava uscire allo scoperto con i prodotti dell'arte attuale, invadere lo spazio cittadino.
Angela Vettese: Si potrebbe pensare anche che l'arte contemporanea abbia cercato diverse vie di sviluppo, trovando "specializzazioni" diverse nei metodi di progetto e allestimento delle opere a seconda del luogo per cui esse vengono pensate: lo spazio piccolo, chiuso, spesso architettonicamente neutro della galleria privata; quello piu grande, talvolta un poco piu connotato sopratutto sul piano sociale del museo; lo spazio spesso imprevedibile delle grandi rassegne collettive, impreganto dall'impostazione critica di uno o piu curatori; e infine, appunto, anche lo szazio esterno e piu sovente cittadino, caratterizato ora da paessaggi selvaggi o desertici, ora invece da linee talvolta secolari dello sviluppo urbanistico. E' come se fossero nati generi differenti nei quali gli artisti si esercitano, come un tempo un medesimo artista poteva passare dalla pittura all'architettura alla scultura. Certamente, gli artisti cercano di fuggire dall'aria soffocante del cosidetto white cube quasi da quando esso e stato inventato, nei tardi anni quaranta, per le opere dell'espressionismo astratta americano. Gia dal suo nascere ci si avvede probabilmente che quella zona al di fuori dl mondo vissuto, in cui si pretendeva di mostrare al meglio l'arte d'avanguardia, stava al polo contrario rispetto a un nodo ricorrente nella teoria delle avanguardie storiche stesse, ovvero la circolarita tra arte e vita, la necessita di ritrovare un ponte tra queste due sponde; del resto l'ambiguita stava gia nella cultura romantica ottocentesca, che aveva contribuito a creare un concetto elitario dell'arte dividendo nella pratica quel binomio arte-vita che invece propugnava in teoria. Queste specie di cortocircuito tra un'arte che nei fatti divorzia dal pubblico, ma che anela a ricongiungersi a esso, mi sembra proprio una caratteristica dell'ultimo intero secolo. Credo sia a causa della difficolta di scogliere questo nodo de della necessita di aggirarlo che si sono andati svillupando tutti i "generi" di cui parlavo prima.
FM: Certo, ma tornerei brevemente sulla questione della funzione dell'arte nello spazio esterno - sia che per funzione si intenda compito o efficacia. Penso che l'arte - dal punto di vista storico - fin dai suoi inizii sia stata sempre pubblica. L'architettura del duomo di San Gimignano non è pensabile senza il programma di affreschi che ne ornano l'interno. La vicina piazza Cisterna non avrebbe nessuna funzione senza la fontana medievale che, simbolo del potere e della ricchezza comunale e luogo in cui veniva amministrata la giustizia, può raccontare la sua "storia" solo nel contesto risultante dall'articolazione di urbanistica, architettura e scultura. I committenti di corte e di chiesa del Rinascimento pensavano al pubblico anche quando davano in commissione opere d'arte per uso privato. Il principio artistico del barocco è quello dell'opera d'arte complessiva: l'architettura, la scultura, la pittura, la decorazione perfino la festa di corte sono parte integrante di un'unica opera d'arte. Il concetto di "opera d'arte complessiva" del barocco ha dato un nuovo ordine al mondo quanto la scoperta rinascimentale della prospettiva: ogni palazzo, chiesa, scultura, affresco o pittura era parte di una compaggine ideale. L'idea dell'autonomia dell'arte con tutti gli aspetti da te nominati, dalla presentazione in atelier, in galleria e in museo - nel white cube - è, come dicevi giustamente, un'idea borghese nata nel XIX secolo e restata vincolante per il XX. Solo da meno di una trentina d'anni l'arte contemporanea è tornata ad "andare" nello spazio urbano, osa affrontare il confronto con il "cittadino normale" dando così il via ad una nuova discussione sul rapporto tra arte e quotidianità.
AV: Ma il problema rimane e diventa visibile sopratutto nell'arte concepita negli spazi urbani e per un diverso rapporto con il pubblico. Una lunga storia di fallimenti racconta come gli artisti il cui linguaggio esce da anni di sperimentazione, e per questo e innovativo e difficile da condividere, debbano ancora corteggiare "la gente" per riuscire a conquistarne il consenso . Qualche esempio banale: il Titled Arc di Ricard Serra realizzato nel 1979 ha dovuto essere abbatutto; l'arco-panchina che Max Bill ha voluto regalare a Zurigo, la sua citta, nel 1987, e stato lungamente combattuto prima di essere accettato dalla popolazione; l'opera di Hans Haacke aveva concepito nel 1994 a Graz come ricordo dell'annessione dell'Austria alla Germania nazista venne bruciata poco dopo la sua installazione.
FM: Comunque direi che responsabile è anche la burocrazia pubblica, capace com'è di impedire, per ragioni che sembrano piuttosto delle scuse, la realizzazione di opere d'arte nello spazio urbano: il contributo di Hans Haacke per la Skulptur Projekte di Münster del 1987, l'applicazione sugli autobus cittadini di una scritta-messaggio, fu impedito dalle autorità cittadine, perchè "è vietata la propaganda politica sugli autobus cittadini". Un altro esempio: durante la notte che precedeva l'apertura della mostra Skulptur Projekte a Münster del 1977 le autorità cittadine fecero circondare l’opera di Donald Judd con una staccionata su cui era scritto: "È vietato entrare nell'area dei lavori in corso. I genitori rispondono per i figli". Nella notte che aveva seguito all'istallazione dei Giant Pool Balls di Claes Oldenburg un nutrito gruppo di persone aveva tentato di far rotolare nel lago di Aa le tre palle di bigliardo, come testimoniano i verbali della polizia, in parte per scherzo in parte per dichiarato disprezzo contro l'arte contemporanea.
AV: In questo contesto, la petitizione popolare che ad Anversa cerco di tenere in piedi un'opera di Gordon Matta Clark (poi effetivamente distrutta) appare proprio un'eccezione. Non a casa alcuni artisti sono giunti a concepire opere che non "offendano" il gusto pubblico attraverso dispositivi diversi: da un parte mi viene in mente il monumento contro il fascismo di Jochen ed Ester Gerz, che nel 1987 installarono un pilastro di 12 metri destinato a incunearsi per terra e a nascondersi, riducendosi a una semplice lapide; dall'altro, naturalmente, le settemila querce di Joseph Beuys, che pur essendo il monumento pubblico a mio parere piu ambizioso che sia maso stato concepito (in qianto destinato a non morire fino a quando pe piante avranno forza di regenerarsi e generare, coe fino alla fine del nostro ecosistema), con il tempo si e diffuso ed espanso sotto le vesti di "natura" ma, in quando "arte", si e nascosto. E' come se gli artisti fossero pronti a confrontarsi di nuovo con la piazza ma avessero, nel corso di questo secolo passato al chiuso del oro mondo specifico, perso il know how della comunicazione allargata e dell'opera a piu livelli di lettura. Eppure e chiaro che in un periodo cosi denso di cambiamenti hanno a noia il bianco asettico delle pareti e desideranno finalmente sporcarsi le mani con gli ambienti reali, recuperando quel posto di testimoni del presente che, almeno nell'Italia medievale e rnascimentale, era il loro principale vanto. Da pensare e bellissimo, ma non i nego che mi sono chiesta spesso fino a che punto sia possibile da realizzare. Il divorzio non sara irrecuperabile?
FM: Prima di rispondere alla tua domanda penso che sia molto importante sottolineare che quando parliamo di scultura per l'area pubblica, non parliamo delle cosiddette "drop sculptures" che sembrano piovute dal cielo e che non hanno nessua relazione con il loro contesto espositivo, ma di opere d'arte che si richiamano concretamente al contesto urbano, architettonico, storico ed anche psicologico del luogo in cui si trovano, in prima linea è decisivo il luogo scelto dall'artista, poi il suo intervento estetico, la parola d'ordine degli anni ottatnta era la cosiddetta "Site-Specificity". La prima domanda da porsi sarebbe allora a chi serve l'arte nello spazio pubblico: agli abitanti della città, ai committenti o forse solo agli artisti ed al mercato d'arte, lo spazio pubblico come una specie di enorme area espositiva gratuita e come una grande possibilità di mercato?
AV: Certamente il mercato dell’Arte trova un qualche giovamento dalla visibilià che gli autori acquistano con le loro opere pubbliche, ma insisterei anche di più su questo lato prosaico: il momento d'oro della "site specificity" ha coinciso con lo sviluppo senza precedenti della figura del curatore. Le nostre piccole o grandi carriere le costruiamo anche attraverso questi eventi, più "creativi" delle mostre museali la cui grammatica è già molto definita. Credo però che l'arte negli spazi pubblici rappresenti un notevole stimolo per gli artisti: a loro serve come come fonte di sfide nuove rispetto a quelle dell'opera da atelier. Lo spazio urbano detta delle regole, pone dei limiti, così come un pubblico non predisposto e spesso tendenzialmente diffidente. Penso anche che ogni paese, ma in particolare l'Italia, sia una sorta di lavagna dove ogni epoca ha lasciato un suo segno. È dalla sovrapposiione nel tempo di queste tracce che nasce l'identità dei luoghi. Perché il presente che viviamo noi non dovrebbe lasciarne? Se cessassimo di creare arte pubblica, in nome della conservazione del passato, in realtà tradiremmo il meccanismo stesso attraverso cui questo passato tanto amato si è tradotto in forme abitabili. Il culto del restauro, del resto, mi appare come una delle espressioni più simboliche del modo in cui la nostra epoca (come nessun'altra prima) detesta se stessa. Viviamo tra telefoni e televisori, senza poterne fare a meno, ma non ne siamo orgogliosi, ne siamo piuttosto impauriti. L'arte pubblica può servire anche come segnale per accogliere il nostro presente con meno sospetto. Anche se è chiaro che un tempo, per esempio nell'epoca del barocco che tu citavi, gli artisti erano i registi incontrastati del mondo delle forme e delle immagini. Cinema, televisione, pubblicita`, Internet hano oggi sottratto loro questo primato. In un certo senso, la vera arte nello spazio pubblico, quella in cui maggiormente si proietta l'identità collettiva e che riesce a mutare i comportamenti delle folle, é quella che proviene dai media. Mi piacerebbe credere che l'arte visiva nel senso in cui ce ne occupiamo noi sia ancora un segno forte, anche se non immediatamente attraente, perche` non é transitoria, é solida in senso fisico, culturale e metaforico. Tu che ne pensi?
FM: Sono d'accordo con te, e la mia opinione è probabilmente anche più idealista. Le ragioni che vi sono alla base sono le seguenti: se è vero che il mondo occidentale alla fine di questo secolo, anzi di questo millennio è caratterizzato dal passaggio dalla società industriale a quella dell'informazione - cambiamento paragonabile solo a quello che portò dalla società di corte a quella borghese-democratica più di duecento anni fa - allora in futuro non sarà più il commercio dell'Hardware - automobili, lavatrici, preservativi -, ma quello con la Software -superstrada elettronica, Internet, E-mail, Virtual Sex - a determinare il mondo occidentale in senso economico, politico e sociale. Ed anche se i media elettronici sembrano aver ridotto il mondo ad una piazza di paese, pure la città, con la sua struttura urbana e sociale, ha ancora validità per il suo carattere duraturo di sistema di riferimento per la quotidianità dell'uomo. I media elettronici non hanno (ancora) sostituito lo spazio pubblico, al massimo l'hanno ampliato. Dunque lo spazio pubblico, e con esso automaticamente l'arte che in esse agisce, continua ad avere una funzione sociale centrale per la collettività. Per questa ragione anche se - come tu giustamente dicevi - il mondo delle immagini di oggi è dominato dalla televisione, da internet e dalla pubblicità, io credo che l'arte contemporanea sia in grado di costruire un contro-mondo, contro-mondo che potrebbe rappresentare un moderno concetto di libertà. Se l'artista barocco era parte integrante del sistema, e anzi addirittura ne influenzava le regole nella sua funzione di "regista delle immagini", la chance dell'artista oggi consiste proprio nel suo muoversi al di fuori di un sistema basato sull'assicurazione per la macchina, la vita, la pensione, la salute, la disoccupazione e nel suo tentativo di dar vita ad un contro-sistema in cui egli potrebbe rappresentare quell'aspetto centrale della vita umana che è la libertà. Per dirla con il giovane artista austriaco Heimo Zobernig, la funzione più importante dell'arte "non è quella di funzionare". E Ayse Erkmen sottolinea come la funzione dell'arte contemporanea non sia "di conoscere le risposte, ne' di rispondere a delle domande, ne' di porre delle domande a cui si possa rispondere". L'aspetto creativo, fantasioso ed estetico della produzione artistica che si trova al di fuori del corso dato della vita umana, è sottolineato anche da Ilya Kabakov quando dice che "l'arte deve porre degli enigmi. Lo scopo nel porre quest'enigma è doppio: l'arte dovrebbe fornire sì la soluzione dell'enigma, ma in esso deve essere presente un frammento non scioglibile atto a provocare la nostra capacità di supposizione e di immaginazione". A prima vista, se quello detto fin'ora è vero, appare allora assai strano il fatto che gli artisti oggi si servano di forme tratte dai fenomeni della cultura quotidiana, o che rendano addirittura utilizzabili le loro opere. Eppure quando Walter Grasskamp nel suo articolo, a proposito dell'arte nello spazio pubblico, parla in senso negativo di una "festivalizzazione" dell'arte, non posso dargli ragione, ed anzi vorrei al contrario sottolineare qui l'aspetto positivo dell'"arte come servizio di utilità pubblica".
AV: Sono d'accordo, anche se penso che la nozione di servizio collegata a quella di arte susciti non pochi problemi teorici e pratici. Ma certamente, se é vero che l'economia della nostra epoca non é più basata sulla produzione di beni "solidi" ma soprattutto, appunto, di beni intangibili come i servizi, dai viaggi organizzati alla telefonia, mi sembra del tutto coerente che quest'aspetto si accentui anche nella produzione artistica. Lo ha spesso sottolineato nei suoi saggi anche un'artista come Andrea Fraeser. Non dimentichiamoci che l'epoca dei grandi monumenti occocenteschi era anche quella della prima rivoluzione industriale, di una rivoluzione che ha riguardato la materia, e che ora siamo nel mezzo di una rivoluzione produttiva che riguarda soprattutto beni non materiali.
FM: Olaf Metzel mette nel mezzo di un'architettura spigolosa e forte come quella della Fortezza medievale di Montalcino la forma elegante e rotondeggiante di un velodromo, che dopo la vittoria di Pantani al Tour de France ha guadagnato ancora più in popolarità, un'opera di cui, attraverso l'utilizzazione, si può entrare in possesso. Anche Bert Theis offre nei giardini pubblici di Volterra - l'unico luogo della città a non essere occupato al cento per cento dai turisti - alle famiglie che vi si recano a fare il loro pic-nic, o alle coppiette, o ai bambini dei Plateau acome dei letti con palme, un arcipelago di isoletta paradisiache, un luogo per il riposo e il relax, ma anche per la meditazione e la concentrazione. Quest'aspetto dell'utilizzazione attiva dell'opera d'arte e quindi dell'invito dell'artista al visitatore-fruitore-passante di entrare in relazione con il suo sistema estetico, di vivere in esso per un po' di tempo, viene esteso da Ayse Erkmen che, entrando in diretto confronto con l'architettura sacrale medievale, vi sistema difronte modelli, anch'essi in pietra e quindi anch'essi monumento, di sedie di famosi designer italiani del dopoguerra, elimina la cesura tra passato e presente. In modo quasi ironico l'arte contemporanea diventa sottilmente rappresentante e agente cambiante di quell'identitá dei luoghi di cui tu parlavi. Sono dunque sì del parere che l'arte contemporanea rappresenti ancora un segno forte, e che proprio in uno spazio connotato storicamente, realizzando un fruttuoso collegamento tra passato e presente, essa riesca a sviluppare anche delle prospettive, non solo di carattere estetico, ma anche sociale per il futuro. Quest'ultimo aspetto è particolarmente chiaro nell'istallazione articolata in tre parti di Ilya Kabakov a Colle Val d'Elsa. Ia prima parte della storia che l'artista ci racconta, si svolge nell'antichità, situata fisicamente in un "no place" fuori le mura della città; la seconda parte si racconta il periodo in cui si formarono quei comuni toscani che ancora oggi, intatti, determinano l'immagine di questo paesaggio culturale. L'ultimo capitolo della storia si svolge invece in un bar, sulla cui parete interna centinaia di mosche compongono la scritta "Noi siamo liberi!". Kabakov ha dedicato al motivo delle mosche un'intera mostra personale - "La vita delle mosche", 1992 presso il Kunstverein di Colonia - ed egli stesso ha scritto nella sua descrizione del progetto per Arte all'Arte: "The third project 'We are free!' is associated for the author with the current situation today", infatti - come ha detto Boris Groys - "la mosca per sua natura non ha un posto preciso in un qualsiasi sistema. Vola continuamente in tondo, ronza, si posa e subito vola di nuovo via. I cerchi che disegna nell'aria sono sempre caotici. Il posto in cui si posa sulla superficie degli oggetti è sempre casuale."
La mosca è la metafora per la propensione ed il diritto (dell'arte) alla libertà.
AV: Si dice anche che Cartesio abbia inventato il suo sistema di assi per una subitanea intuizione, un insight avuto mentre lo infastidiva il volo di una mosca proprio sopra il suo naso. Non potendolo prevedere né fermare, inventò almeno un linguaggio matematico per afferrarlo all'interno di una equazione. Anche Kabakov imprigiona le sue mosche proprio mentre ne canta la libertà, mettendo in evidenza l'odio-amore e il paradosso che questa parola suscita in tutti noi. Un paradosso che, del resto, ee stato molto frequentato anche dalla scienza, per esempio riguardo al dibattito sui rapporti tra caso e necessità. Più che una pura espressione della libertà, l''arte mi sembra possa essere un modo per mettere in evidenza i nostri contraddittori sentimenti verso di essa. E l'arte publica in particolare, come testimoniano tutti i fasci e tutte le teste di Stalin che sono stati prima eretti, in seguito scalpellati via con fragore al sorgere e al rovinare dei rigimi da cui venivano. A Siena, le mille trasformazioni subite dall'affresco detto del Buongoverno attestano come questa specifica vocazione dell'arte nei luoghi pubblici non sia certo cosa di oggi. Vorrei però sottolineare un aspetto che, invece, ee prettamente legato al modo odierno di vivere e concepire l'arte. Sono convinta che il pubblico più vasto di Arte all'Arte amerà tutti e sei gli interventi, ma sarà disposto a considerare "arte" solo le sculture di Paladino e quelle di Louise Bourgeois; forse non é importante, ma dobbiamo chiederci perché questo accade così spesso. In fondo le opere di arte pubblica più amate del nostro tempo per esempio il Viet Nam Memorial e la distesa enorme dei Quilt per l'Aids, quasi non hanno un autore e in qualche modo non recano, agli occhi del pubblico, l'etichetta di "ate". L'arte negli spazi pubblici spesso é amata anche se, oppure proprio perché, non é avvertita in quanto tale, cioé in quanto legata a una tradizione specifica che implica anche un certo concetto di "autore". Mi spiego meglio. E' chiaro che quando BertTheis utilizza per costruire le sue isolette le proporzioni della sezione aurea; quando Kabakovv allestisce degli angeli; quando Paladino riprende le formelle dipinte in una sagrestia da Memmo di Filippuccio; quando Ayse Erkmen associa in un'opera unica due pratiche nate per la ripetibilità, cioè la tecnica artigianale dell'alabastro e il progetto per il design; quando Louise Bourgeois usa il marmo di Carrara, così ricco di storia artistica alle spalle, per ricordare i fantasmi della sua infanzia... Tutti si riferiscono a una tradizione e a una storia dell'arte dominata anche da un filo autoreferenziale; tutti, ciascuno a proprio modo, "rispondono" agli artisti loro predecessori. E come accennavo sopra, l'Italia è proprio il luogo ideale per farlo, piena com'é degli spiriti dei pittori che volano sulle città e che a nostra insaputa si danno convegno in piazza. Ma questa continuità e queste risposte il pubblico non le vede facilmente. Se la gente sapesse che il velodromo di Metzel intende insersi nella tradizione artistica, lo schernirebbe. Le sedie di Ayse verranno amate senza perplessità fino a quando non si penserà che sono espressione della personalità di un' "autrice": dov'é, infatti, l'invenzione, si potrebbero chiedere, dove sta la poesia e via dicendo? Mi dirai che questo contrasto tra ciò che il pubblico considera essere "arte" e "autore" rispetto a ciò che veramente sono non é importante. Gli interventi dei sei artisti nella valle dell'Elsa vivranno a prescindere dal modo in cui verranno definiti. Ma mi sembrava che fosse necessario sottolineare anche questo aspetto, per non esserne del tutto inconsapevoli.
FM: Certamente il pubblico a un primo sguardo frettoloso “riconoscerà” e considererà solo le opere di Mimmo Paladino e di Louise Bourgeoise come delle opere d’arte, ma questo non perché ne abbia compreso il significato, ma solo perché in modo associativo collegherà materiale e forma al campo delle arti figurative. Ma il problema non è questo, infatti, quanti contemporanei hann apprezzato i ready mades di Marcel Duchamp o il periodo blu di Picasso, si può dire che solo una volta nel contesto sacro del Museo-tempio e dopo la glorificazione fattane da critici e storici dell’arte essi siano potuti salire sul piedistallo dove hanno trovato posto come incunaboli dell’arte moderna. Se si tratti di arte o meno, se ha o no significato per la storia dell’arte, questo lo deciderà il futuro. Io faccio mia la definizione che ne dà il diritto internazionale europeo e che definisce il concetto di opera d’arte in modo semplice e chiaro: “Arte è ciò che un artista produce. Se si tratta di buona o cattiva arte – ‘high art or low art’ – uesto sarà il futuro a deciderlo. Ma se, come tu dici, il pubblico con le opere di Ayse Erkmen, Olaf Metzel e Bert Theis ci giocherà o magari ci si divertirà, allora si saranno già compiute le prerogative più importanti per definizione e la ricezione dell’arte: l’occuparsene in modo attivo – giocoso o serio, superficiale o devoto –, l’entrare, anche se brevemente, in un altro mondo, in una fantasia, in un’immaginazione che fondandosi nella realtà reale degli oggetti, offre una realtà virtuale al soggetto. E alla fine il pubblico sarà forse più propenso alla riflessione e alla devozione di quanto non lo fosse prima quando guardava le opere di Bourgeois e Paladino. E perciò sono d’accordo con te quando dici che l’arte funziona al meglio quando, almeno al primo sguardo, non viene riconosciuta come tale. Anche per questo gli artisti, sin dagli inizi del nostro secolo, si sono serviti delle forme mediali e delle apparizioni tratte dalla cultura quotidiana: il pissoir, la sedia del designer, come anche il velodromo, possono servire a trasformare un oggetto visibile e banale in una storia visionaria, come nell’opera in tre parti di Ilya Kabakov, dove la banalità del quotidiano viene intrecciata alla visione poetica; per dirla in modo più generale: l’arte non esiste, l’arte si crea. Gli artisti che lavorano nello spazio pubblico sentono questa responsabilità della creazione e dello sviluppo di un’opera d’arte dalla forma obiettiva alla dichiarazione soggettiva, ancora di più: essi, artista e opera, devono infatti non solo dimostrare che nella cultura quotidiana ci sono, ma che anzi hanno qualcosa da dire e un contributo da dare allo svluppo di questa cultura. Propri per questo un artista si muove sempre sulla linea di confine tra realtà e virtualità, tra autonomia e contestualità.
AV: Mi piace molto che tu ritenga importante e direi fondamentale che le opere conservino un margine di visionarietà. È un tipo di considerazione che non ho trovato in molta letteratura sull’arte nello spazio pubblico: sembrerebbe che il contributo alle opere della fantasia sia considerato politically uncorrect. Se Grasskamp, nel suo saggio per il nostro catalogo, si scaglia così vigorosamente per l’autonomia dell’opera e contro gli eccessi derivanti da una sua contestualizzazione, forse è anche in risposta a questo tipo di atteggiamento. Inoltre, un certo tipo di operazioni unicamente rivolte al sociale rischiano di sfociare in un facile accademismo, di cui abbiamo avuto prova anche nell’ambito di Documenta X, una mostra tanto “impegnata” quanto contraddittoria, perché in definitiva funzionale al sistema che criticava. Ma ci tengo anche a dire che l’opera d’arte non è mai stata “autonoma” se non nel secolo scorso e all’inizio di questo. L’autonomia può essere una conquista, ma è anche una grande perdita: perdita di contatto con il luogo, la committenza, il pubblico. Il rapporto dell’arte contemporanea con il territorio naturale e artistico della Toscana, che è la ragione d’essere di Arte all’Arte, è particolarmente adatto a dimostrare come l’arte sia sempre stata “al servizio” di qualcosa, si trattasse di una pala d’altare, di un palazzo o di una fontana.
Ciò che noi promuoviamo, il ritorno dell’arte contemporanea allo spazio pubblico, non è che una continuazione delle partiche del passato dopo una pausa di riflessione. Una pausa che defineri piuttosto breve, se la si vede in prospettiva e se si pensa a quanto rapidamente le cose siano cambiate in questi ultimi due secoli intorno a noi oltre che intorno all’arte.
Ora che la mostra si è aperta (e spero che tu ti sia divertito almeno quanto me nei giorni dell’allestimento: l’esperianza umana, oltre che professionale è di quelle che si ricordano) possiamo anche commntare più da vicino ciò che abbiamo contribuito a far nascere. Le cose sono andate coe prevedevamo, con un gran successo di Paladino e Bourgeois. Ma non mi sento di dire che le pedane di Theis, così splendidamente bianche sul prato verde, così accoglienti con la loro palma dietro, non abbiano riscosso meno attenzione; gira già voce che i visitatori del parco archeologico di Volterra si opporranno all’espianto delle palme quando l’opera verrà smantellata. Sul velodromo abbiamo visto correre come matti i più coraggiosi tra i visitatori e aspettaimo la performance della prossuma settimana con le biciclette vere; dietro al cannocchiale di Kabakov stava una fila così lunga che ne ho viste d isimili soltanto in Unione Sovietica nel 1987, lo stesso anno in cui sono salita nella mansarda di Mosca dove Ilya aveva il suo studio. Le sedie di Ayse mi sembra siano state “toccate” meno, forse perché l’alabastro dipinto in cui sono state realizzate è talmente sacrale da destare facilmente uno stupore che diventa soggezione. L’impressione generale è che questi lavori, nel loro piccolo, possano veramente contribuire a cambiare alcuni comportamenti. Credo davvero che che l’arte abbia due fini: interpretare il presente e mutare i comportamenti futuri, anche se in modo sotterraneo e spesso quasi invisibile. Così invisibile, ma anche così irritante (come la torpedine con cui si identificava Socrate) che il successo della mostra si misurerà anche dalla quantità di critiche negative che riusciremo a raccogliere. L’irritazioe è un buon segno di efficacia, come sa chi usa le creme per la crescita dei capelli o la scomparsa delle rughe. L’irritazione fa sperare, e io ci spero.
FM: Ritornando brevemente sull’argomento di cui parlavi, e cioè della differenza tra autonomia e contestualità in un’opera d’arte, naturalmente sono del parere che ogni opera d’arte – sia in un museo che in un contesto urbano o comunque architettonicamente definito, o anche come intervento contestuale nel luogo pubblico – abbia di per sé un’autonomia e un’indipendenza che la isoli dallo spazio circostante, ed è bene che sia così. Ciononostante, però, credo alla contestualità soprattutto dell’arte contemporanea perché essa si presenta e definisce oggi come un possibile rapporto visuale ed estetico con la società in cui viviamo, per dirla in altro modo: il sogno della genialità artistica e dell’unicità non esiste più. Il giovane artista tedesco Tobias Rehberger ua volat mi ha detto di sentirsi come un rappresentante di cravatte: prende i loro stessi aerei, dorme negli stessi hotel e trascorre le serate negli stessi bar - solo che noi curatori non vogliamo comprare delle cravatte, e Rehberger si decrive come un “prestatore di servizi estetici”. L’anno scorso la Documenta X di Kassel ha nuovamente divulgato l’opera d’arte come Overkill intellettuale: ritiro accademico per soli addetti ai lavori, o comunque per “gente di cultura”; altre mostre, invece, come Skulptur Projecte di Münster del 1997 o il progetto Subway a Milano di quest’anno, o anche la mostra di Tony Cragg allestita a Siena, hanno dimostrato come l’arte oggi non sia solo qualcosa per il cervello, ma come al contrario essa abbia anche qualcosa da offrire al cuore. Il ruolo dei curatori in tutto ciò è piouttosto modesto; essi invitano gli artisti dando, attraverso la scelta fatta, una precisa cornice concettuale. Dopodiché essi non dovrebbero far altro che procurare agli artisti la maggiore libertà possibile dal punto di vista finanziario e amministrativo. Il curatore degli anni Novanta non dovrebbe essere altro che una sorta di “avvocato dell’artista”, poiché l’unico responsabile del risultato finale – l’opera d’arte – è l’artista.
Ora che la mostra è stata aperta, credo di poter dire che la nostra progettazione si sia dimostrata valida. Anche se a un primo sguardo i lavori di Louise Bourgeois e di Mimmo Paladino sono stati i più “gettonati” dal pubblico, pure misembra che oggi acquistino legittimità nell’ambito della mostra solo se visti insieme a lavori come quelli di Olaf Metzel o Bert Theis. Infatti, solo se presi insieme tutti e sei i lavori presentati è possibile comprendere quali siano oggi le possibilità e le capacità dell’arte nello spazio pubblico, e quali siano oggi gli “stili” artistici rilevanti. Sarebbe ancora da notare che Bourgeois e Paladino sono stati gli unici artisti a lavorare senza relazionarsi completamente al luogo, ma si sono “ritirati” in uno spazio semiprivato. Ayse Erkmen, invece, con il suo omaggio al design italiano del dopoguerra, ha raccontato una storia mettendo in primo piano un periodo importante della storia dell’arte italiana, cosa che fa anche Ilya Kabakov che vi intreccia, inoltre, il racconto di un misterioso e personalissimo incontro.
La portata dei lavori di Erkmen, Kabakov, Metzel e Theis si comprende ancora meglio se si chiarisce un attimo, per concludere, la funzione dell’arte nello spazio pubblico: la mostra Arte all’Arte l’abbiamo fatta in primo luogo “per il posto”, cioè per il pubblico del posto, per gli abitanti delle singole cittadine in cui le opere si trovano e poi, ma solo poi, per un possibile pubblico nazionale o internazionale che sia. Per questo non mi preoccupano le centinaia di chilometri che il visitatore deve percorrere in macchina o in autobus per veder tutte le opere. Gli interventi estetici dei sei artisti provenienti da sei Paesi diversi in sei diverse cittadine della Toscana, devono essere intesi come un’“offerta” fatta agli abitanti del luogo di vivere per un periodo – il periodo della durata della mostra – con queste opere d’arte. Gli abitanti del posto vivranno così un’esperienza artistica nuova, conosceranno un’arte non ancora così nota e contemporaneamente, forse, attraverso le nuove opere, faranno una conoscenza nuova dei luoghi a loro certo non sconosciuti. Da un punto di vista psicologico ed estetico c’è infatti una grande differenza se va al parco archeologico di Volterra a distendersi un po’ dopo il lavoro, o se ci va per per distendersi su un’isola di paradiso di Bert Theis a guardare la chioma della palma muoversi al vento e ad ascoltare magari il rumore lontano delle onde del mare. E c’è differenza se gli abitanti di Montalcino che non andavano nella “loro” fortezza, ormai vista centinaia di volte e sempre piena di turisti americani o tedeschi o giapponesi, magari adesso ci tornano, nonostante la massa di turisti stranieri, per vedere il velodromo di Metzel e magari per portarci i bambini a giocare. E c’è differenza se gli abitanti di Mensano vanno nella loro meravigliosa chiesa romanica, dalle finestre a candela di alabastro, solo per la messa o se ora magari ci vanno anche per vedere una strana sedia, per forma e colore, di nome “Donna” e chiedersi che cosa abbia mai a che fare una sedia del genere, di un designer del XX secolo, con l’architettura medievale della “loro” chiesa. sembra dunque che continui a perdurare sia da parte degli artisti che da quella del pubblico un interesse per l’arte nello spazio pubblico. Tutti questi aspetti sono secondo me alla base del compito e della grande possibilità dell’arte contemporanea dello spazio pubblico e la mostra Arte all’Arte l’ha dimostrato ancora una volta: l’arte nel secondo dopoguerra è andata per strada a prednere posizione contro la sua crescente musealizzazione e ancora in questo senso l’arte nello spazio pubblico oggi ha soprattutto il compito di opporsi alla tendenza sempre crescente di musealizzare le città europee – Berlino come Montalcino, Milano come Colle di Val d’Elsa – di ostacolare il loro estinguersi per dichiarare nuovamente le città il centro dell’attività umana.