Jan Hoet & Giacinto di Pietrantonio

Curatori, 1997

Jan Hoet e Giacinto di Pietroantonio sono stati i curatori della edizione di Arte all’Arte II nel 1997. In questa occasione, sei sono stati gli artisti invitati che sono intervenuti con opere site specific per le città della Toscana: Anish Kapoor a Volterra; Sol LeWitt a Colle Val d'Elsa; Salvo a Casole d'Elsa; Gilberto Zorio a Montalcino; infine a San Gimignano con Marco Cingolani, Jessica Diamond e Amedeo Martegani.

Una conversazione tra Joan Hoet e Giacinto di Pietrantonio

Jan Hoet: In tutta la storia dell’arte troviamo degli esempi di artisti che lavorano in modo tautologico sull’arte, riflettendo sul modo di importare il passato nel presente. Picasso ha fatto questo con “Las Meninas”, di Velasquez, con El Greco, con l’arte iberica, con l’arte africana, ha assunto tutta la storia dell’arte e l’ha importata con il suo stile nella sua epoca. Allora, mi domando se non c’è anche una contraddizione in questo tentativo di vedere l’arte come autonoma. Penso che ciò non è possibile e che sia un paradosso.

Giacinto di Pietroantonio: Riflettere il passato nel presente è oggi divenuta norma. L’epoca postmoderna, infatti, si caratterizza per questo sguardo retrospettivo in tutte le direzioni e in tutte le discipline.

J.H.: Anche nella moda, se prendiamo a esempio, l’evoluzione di stilisti come Paco Rabanne, Armani, Versace, vediamo che questi prendono qualcosa del passato e le mettono in un colore differente, in una forma di celebrazione. Una celebrazione personale e storica, e ognuno ha il suo proprio interesse: c’è l’epoca dell’espressionismo tedesco, del cubismo, dell’arte primitiva, all’epoca di Van Gogh c’era un interesse per l’Asia...

G.D.P.: Sì, nel perido impressionista soprattutto per il Giappone.

J.H.: Ciò che hanno fatto gli impressionisti è di materializzare i giapponesi, concretizzarli, quello che era una riproduzione diviene un’esperienza reale della pittura. Allora, capisco quando Picasso dice: “L’arte negra? Non la conosco affatto.” Questo è quello che io chiamo il paradosso. E ciò è vero, perché non è l’arte negra, ma Picasso, mentre nell’epoca postmoderna è piuttosto il passato che vediamo.

G.D.P.: L’epoca postmoderna è un’epoca...

J.H.: Della frammentazione.

G.D.P.: Si, ma anche e soprattutto dell’informazione e della comunicazione, mentre nella modernità si era in un tempo della sperimentazione. Oggi siamo passati da un’estetica della sperimentazione a un’estetica della comunicazione. Ed è per questo che gli artisti utilizzano dei segni che già conosciamo, un alfabeto che comprendiamo, ma non per copiare il passato, piuttosto per riscrivere altre storie, per parlare con esso di altri sentimenti, per spargere energie diverse. Difatti, il dialogo con il passato di de Chirico, soprattutto nel periodo metafisico, è monolitico, personaggi e spazi non ammettono frammentazioni, anzi sono assoluti, “originari” li definiva l’artista, come assoluta è la modernità con il suo desiderio di raggiungere le strutture originarie dell’essere. Ma proprio, perché non conosciamo più, non esperiamo questa originarietà ci si è trovati nell’impossibilità di comprenderla e assumerla. Tale difficoltà, mostrata dalle opere di de Chirico, esprime proprio l’impossibilità o il rifiuto a comunicare in modo non differente da quelle di altri artisti suoi contemporanei apparentemente diversi, ma simili negli intenti sperimentali come ad esempio Malevitch e Duchamp. Infatti, credo che non ci sia nessuna differenza tra il rifiuto di parlare de “Le muse inquietanti” di de Chirico, il “Quadrato nero” di Malevitch e la “Ruota di bicicletta” di Duchamp. Si tratta del paradosso della modernità che voleva andare nella vita con una lingua nuova che si stava costruendo, sperimentando, una lingua che appariva incoprensibile, ma che ha avuto bisogno di un periodo di maturazione per essere appresa. Oggi noi non abbiamo solo conoscenza della modernità, ma ne facciamo esperienza a livello di massa, proprio perché questa, fondendosi con linguaggi premoderni, hanno dato vita ad una sorta di esperanto che parla, comunica a tutti.

J.H.: C’è un rilavorare la storia come strategia e tattica di sopravvivenza.

G.D.P.: Ma anche passare da un atteggiamento sacerdotale a uno più laico. Oggi l’artista non si sente più mago, stregone, scienziato, dispensatore di verità assolute, o meglio non può vivere un atteggiamento colonialista. Picasso, quando dice di non conoscere l’arte negra rivela la sensibilità dell’epoca in cui viveva, un periodo ancora coloniale che credeva nell’assolutismo occidentale. Oggi, già da parecchio tempo, questo non è più possibile, come non è possibile cercare l’autenticità in viaggi in paesi lontani ed esotici, perché è il concetto stesso di lontananza, di esotico, oltre che di originario ad essere in discussione. Dopo la frantumazione dell’Est e dopo che l’Oriente e il Sud del mondo dilagano in Occidente, tutto ha assunto una forma meticcia, niente è più originale, proprio perché si sono mescolate tante origini. Sopra dicevi che Picasso rilavora il passato nel suo stile, ma per gli artisti odierni ciò non ha più senso, perché non hanno nessun problema a rilavorare il passato, il presente e il futuro con lo stile proprio e degli altri. Ciò ha fatto si che la realtà passasse dal linguaggio sperimentale della modernità coloniale a quello comunicazionale della postmodernità. Possiamo dire che gli artisti del nostro tempo stanno a quelli del periodo moderno come uno scienziato sta alle macchine che i suoi studi producono. Difatti, le sue ricerche, calcoli, formule sono incomprensibili ai più, mentre la società si serve di strumenti che da questi studi derivano. Per cui, la differenza tra ieri ed oggi tra Duchamp e Warhol, ad esempio, è quella che corre tra Marconi e la televisione, dove le ricerche del primo hanno portato anche alla realizzazione della seconda: ma possiamo dire se l’uno sia meno importante dell’altra?. Ciò l’aveva ben compreso ed espresso Andy Warhol quando diceva di voler essere una macchina, perché molto cosciente di questo passaggio dal mondo della creazione sperimentale a quella della creazione comunicazionale. Difatti, il postmoderno ha molti detrattori, perché guardano tale superfice, questa pellicola di fine secolo con superficialità non capendo che se ti hanno dato il computer devi imparare ad usarlo anche se lo critichi. Infatti, oggi gli artisti producono delle opere: quadri, sculture, installazioni, eccetera immediatamente riconoscibili, comunicabili direi sia che si rifanno al Novecento, sia che guardano all’Arte Povera. È di questo che parlano le opere di Salvo, di una stratificazione storica, dove l’apparente semplicità della sua pittura, nasconde la complessità della storia e dell’esperienza di una visione concettualmente raffinata, è una sorta di macchina di verità, una trappola per gli sciocchi che credono che la superficie sia superficialità.

J.H.: E sono anche oggetti di sopravvivenza, prendiamo le connotazioni dell’arte per situarle, tramite la comunicazione, in un mondo che si sente insicuro. D’altra parte gli artisti cercano di fare qualcosa che corrisponde con ciò che si fa fuori dell’arte e allo stesso tempo riferendosi all’arte, perché l’insicurezza è talmente grande che non si può essere senz’arte, come i filosofi non possono essere senza filosofia, come non si può essere senza la comunicazione con gli altri. All’epoca della modernità vi era, ad esempio nella medicina, una sperimentazione autonoma, ma senza comunicazione, mentre oggi ogni esperimento deve essere comunicato per essere sicuri.

G.D.P.: Potremmo dire che oggi, alla fine di un secolo e di un millennio, siamo in un angolo tra ricerca di sicurezza nel passato e condizione di panico esistenziale del presente, ma anche nel riniziare, per uscire dalla crisi, a guardare verso il futuro, perché a seconda di dove si decide di stare nei confronti dell’angolo storico-sociale noi possiamo agire nella vita. Se siamo solo al suo interno siamo nell’impossibilità di muoverci, ma se ci mettiamo all’esterno, ci troviamo con la punta rivolta in avanti, propositivamente verso il nuovo millennio. Ed è proprio questa ambivalenza che genera il desiderio di comunicare alla ricerca del consenso nel momento in cui la società si trova in un angolo...

J.H.: Per essere amati, perché l’artista è un essere umano asociale, ma che ha bisogno di essere amato. Quindi, egli utilizza codici psicologici a questo fine.

G.D.P.: Ma per entrare più specificamente in questa mostra “Arte all’arte”, penso che essa non voglia parlare solo dell’arte che guarda l’arte o perlomeno io non vi vedo solo questo, ma il fatto che l’arte contemporanea deve essere mostrata anche in posti differenti dal museo d’arte contemporanea che è un luogo separato. C’è anche l’idea che tutta l’arte è contemporanea e che quando essa si manifesta non ha tempo storico. Difatti, arte che guarda l’arte si realizza in ogni opera, anche in quella che apparentemente la esclude. In questo l’urinatoio di Duchamp è un buon esempio, perché chiamando quest’opera “Fontana” egli la pensava e la metteva in relazione, anche se in modo ironico, con tutte le altre fontane da quella di Trevi a quelle di Versailles e allo stesso tempo non sfugge il rapporto con “la donna al bagno” di Ingres. Ma per far questo metteva un oggetto banale in un museo o in una galleria e per ciò che dico che “Arte all’Arte” va vista anche e soprattutto come metodo di esposizione, cioè esporre l’arte contemporanea in luoghi caratterizzati dall’arte del passato, questo passato che oggi ritorna. Infatti, è cosa diversa mostrare un’opera d’arte contemporanea tra le pareti bianche della galleria che in un museo archeologico Sol LeWitt, in una pinacoteca d’arte antica Salvo, in una chiesa Barocca Kapoor, in una rocca medievale Zorio come in questa occasione. Tu nel 1986 con ”Chambres d’amis” avevi cercato già di fare questo a Gand, da parte mia ci ho provato nel 1993 con “Territorio Italiano” operazione che continua ancora oggi, quella di installare opere contemporanee nel territorio. Forse non è un caso che la prima opera ad essere installata nel settembre del 1993 fu quella di Sozo Shimamoto sulle torri Salvucci di San Gimignano, grazie al contributo della galleria Continua che oggi promuove “Arte all’Arte”.

J.H.: Si, ma allo stesso tempo c’è una sfida con la storia, come l’arte contemporanea si rapporta alla storia senza perdersi e dall’altra parte ha qualcosa di attuale che deve trovare un’armonia. Poi c’è questo rapporto con il luogo, con il sito che è stato inaugurato dagli artisti dell’Arte Povera, una modalità artistica specificatamente italiana.

G.D.P.: Certamente, ma facendo questo essi si rapportano anche alla vita e non solo alla storia dell’arte, pensa a Zorio con le sue sculture che utilizzano elementi energetici, movimenti, reazioni chimiche, un insieme complesso che fanno pensare a mondi originari ad un passato lontanissimo che va al di là della storia, parlando dell’energia vitale che fluisce in noi e nel nostro ambiente da secoli.

J.H.: Dalla preistoria, mentre c’è Jessica Diamond che lavora con le ombre, perché a San Gimignano le torri sono talmente forti che proiettano ombre lunghissime, là le ombre dell’artista sono in marmo e si riferiscono a de Chirico.

G.D.P.: Un altro segno di relazione con il passato...

J.H.: Infatti, non è per caso che de Chirico ha fatto il suo lavoro in Italia, in un Paese dove la luce e le ombre sono così forti e definite.

G.D.P.: Ma tornando alla modalità espositiva non è solo un ritorno all’arte

J.H.: Assolutamente, perché Merz dice che: “Quando in una casa faccio un tavolo, il tavolo deve diventare una scultura e la scultura un tavolo”, dunque c’è l’ambivalenza e l’ambiguità della scelta. D’altra parte non si può negare il valore del contesto. Ad esempio, quando si fa o si colloca un’opera in un contesto non neutrale come il museo, ma in un un luogo così forte e caratterizzato come San Gimignano l’artista deve trovare la chiave giusta per un’opera fortemente ambigua che lo faccia risaltare che non è imitazione, ma mimesi, perché se dipingi un’ombra non è niente, è meglio quella vera. Allora l’ombra deve trovare una sua autonomia anche quando è inserita nel contesto sociale e non isolata come in un museo. Cingolani che istaura un dialogo con il sacro delle chiese, realizzando alcune vetrate per delle case, in cui i gesti, e le smorfie delle figure insieme alla loro dislocazione in giro per la città, rappresentano una risoluzione del paesaggio urbano italiano di sempre, in cui sacro e profano mischiandosi e scambiandosi di posto generano un contesto "spostato ed impreveibile".

G.D.P.: Anche Kapoor ha scelto una chiesa a Volterra per le sua opera, qui vi è un grande blocco di marmo bianco dove solo il lato che guarda la facciata di San Giusto risulta levigata egli altri sono lasciati ruvidi mostrando la materia che si trasforma in energia, come spirito prima di entrare in chiesa, anche se so bene che Kapoor non ama che si parli di aspetti animistici della sua arte.

J.H.: Si, ma bisogna comprenderlo anche nel suo paradosso. E lo stesso quando Kaprow, che abbiamo incontrato oggi qui a Como alla Fondazione Ratti, ride se diciamo che l’arte può cambiare il mondo, ma io sono sicuro che può farlo a condizione che noi ci apriamo all’arte. Ma a queste affermazioni lui ride e scherza, dice di no, ma io sono sicuro che lui vorrebbe fosse così, come Kapoor nel suo intimo sente la forte magia che sprigionano le sue opere.

G.D.P.: Sol LeWitt farà una scultura di elementi modulari simile all’opera presentata alla Biennale di Venezia.

J.H.: È una struttura fatta con un calcolo moderno.

G.D.P.: Ma vi possiamo vedere anche un elemento di relazione con il gotico, l’opera di Venezia ricordava molto una chiesa gotica essenzializzata nella sua struttura. D’altronde è stato dimostrato la ricchezza del calcolo matematico e dei rapporti proporzionali che sottostanno all’architettura gotica, come all’architettura in generale che è una disciplina con la quale Sol LeWitt ha un rapporto e dialogo continuo.

J.H.: Si, è giusto e si può anche vedere come un americano in Europa lavori in maniera diversa.

G.D.P.: Ma per lui è qualcosa che accade gà da tempo, perché, abitando molti mesi all’anno a Spoleto, si vede come ha assorbito l’arte italiana. Se guardiamo i suoi walls paintings vediamo che il modo di trattare e il tipo di colori ricordano quelli degli affreschi medievali umbri, come si stabilisce un rapporto con Giotto, osservazione che è stata d’altronde già fatta.

J.H.: Infatti, prima era solo razionalità e deduzione, ora, da quando abita anche in Europa si vede che c’è più calore nel suo lavoro. Lavora con la luce, con le forme che conosciamo dalla storia dell’arte: la piramide ad esempio.

G.D.P.: Che si è sommata all’estetica della macchina, della serialità modernista.

J.H.: Tuttavia, bisogna aggiungere che l’assenza di un sistema per l’arte contemporanea e la forte sedimentazione storica ha dato un vattaggio agli italiani, ciò li ha portati a dover utilizzare i luoghi che potevano avere e che sono luoghi accidentali.

G.D.P.: Difatti, Martegani fa una guida con ristoranti, luoghi turistici, percorsi alternativi.

J.H.: Si, una topologia.

G.D.P.: Una topologia, che è un modo italiano di fruire l’arte, ma soprattutto di vivere e mostrare luoghi della vita che al tempo stesso finiscono per essere anche luoghi dell’arte, dato l’alta sedimentazione artistico-territoriale presente in Italia. Qui, sarebbe stato impossibile il gesto di Duchamp, perché è la realtà stessa ad essere caratterizzata esteticamente, si può dire che tutto è contestualizzato in un luogo d’arte.

J.H.: Ed è per questo che in Italia è difficile avere una letteratura teatrale ad eccezione di pochi come Pirandello, perché il teatro è nella vita ed è difficile competere con essa.

G.D.P.: Più in generale si può dire che viviamo, non solo in Italia, in una realtà, dove la dimensione estetica è molto elevata, ma mentre in Italia è quella relativa all’arte del passato in relazione al territorio, all’architettura, al paesaggio; l’arte del ventesimo secolo si è diffusa mondialmente più nel comportamento e nelle mode, mi riferisco, ad esempio, alla musica futurista, oramai assorbita nella musica pop-rock, oppure pensiamo alla presenza dell’espressionismo e dell’informale nel cinema di Antonioni e a quella del pop in Tarantino e da loro alle masse. Questo bisogno di andare nella realtà mi sembra molto forte in questi anni, un desiderio che ha portato molti artisti, critici, galleristi ad uscire fuori dai luoghi del sistema dell’arte. Cosa vuol dire tutto ciò? Significa che trovarsi in una fase postmoderna e postindustriale, vuol dire pure che si è entrati in un’epoca postmuseale. Difatti, modernità, industrialesimo e museo nascono nella stessa epoca come espressione della nuova classe sociale chiamata borghesia e che esprime nel collezionare l’idea del possesso e dell’accumulo tipica del capitale. Oggi la sua crisi, che ha avuto il colpo di coda negli anni Ottanta nell’incapacità non solo di poter fornire più valori guida, ma di non riuscire più a controllare i flussi economici, fa si che all’arte non è più sufficiente il sistema dell’arte, come si affermava negli anni Ottanta, ma ha bisogno, staccandosi dal sistema, di tornare all’arte e quindi alla reltà della vita.

Dal catalogo di Arte all’Arte II, 1997

Dal catalogo di Arte all’Arte X, 2005

Grazie ai ragazzi e alle ragazze dell'Associazione Arte Continua conosciuti grazie al comune amico scomparso Luciano Pistoi, grazie perché ancor prima di ideare e promuovere Arte all'Arte mi diedero modo di realizzare la prima opera di Territorio Itliano: la collocazione degli stendardi dell'artista giapponese, appartenente al gruppo Gutaj, Shozo Shimamaoto sulle torri gemelle di San Gimignano. Ricordo: era un bel sabato di settembre, 1993. C'era anche una mostra di manifesti-opere dell'artista. A posteriori credo si trattò di un'inconsapevole prova di Arte all'Arte che doveva iniziare due anni dopo.

Coinvolto in questa avventura reale e ideale insieme a tanti altri di relazionare l'arte di ieri con quella di oggi nella credenza che l'arte è sempre contemporanea a me toccò ancora una volta prendere parte attiva come curtatore insieme a Jan Hoet nel 1996. Qui con Zorio a Montalcino, Kapoor a Volterra, Salvo a........./ Sol Lewitt a............., Jessica Diamond, Martegani, e Cingolani a San Gimignano ci trovammo per collocare le opere all'interno e all'esterno. Tutto ciò oltre che con l'arte era sposato con la guida degli itinerari gastronomici quella volta realizzata dall'artista Martegani, invece che da un esperto di prodotti alimentari, per cui la guida era pure un'opera d'arte. Ma si sa ciò che ha fatto l'Italia è da una parte l'arte, dall'altra la cucina come insegna l'Artusi.

Ora che questa aventura compie dieci anni e deve trasformarsi in qualcosa d'altro i ragazzi e le ragazze sono già partiti per la Cina: nuova frontiera della globalizzazione. Ma intanto qui si interrompe una manifestazione divenuta punto di riferimento del viaggio dell'arte nella realtà dei luoghi artistici ed extrartistici. E' un modo per rispondere all'idea del "withe cube", il cubo della galleria, la stanza bianca, il luogo neutro della modernità in opposizione all'arte che si inseriva precedentemente nelle "stanze della storia" già colorate, già affescate, già decorate, già segnate. È un tentativo che cerca da una parte un'alternativa alla politica della stanza bianca, mentre dall'altra tenta di "sanare" quella cesura tra arte e vita che si è creata a partire da certa arte moderna. Va ora aggiunto che paesaggisticamente l'Italia è uno dei territori più adatti a questo tipo di sperimentazione che va dall'arte all'arte con opere belle, bellissime e sempre in corso nel laboratorio dell'arte e che, fuori e dentro il sistema, continuano a fare paesaggio.

In quest senso possiamo dire che l'Italia è un Paese-Luogo, allo stesso modo in cui l'Inghilterra è un Paese-Paesaggio, la Germania un Paese-Nero, l'America un Paese-Spazio, la Francia un Paese-Cultura, l'Olanda un Paese-Basso, il Brasile un Paese-Natura, l'India un Paese-Folla, l'Afghanistan un Paese-Duro, la Cina un Paese-Muro... Ciò vuol dire che la grande sedimentazione di luoghi "artisticamente" edificati soprattutto nel passato hanno fatto si che l'Italia nostra sia diventato un territorio in cui è l'arte a fare il luogo. Certo, viviamo in un periodo di non luoghi sia per il fatto che "l'ipermodernità" ha prodotto aereoporti, stazioni, metropolitane, centri commerciali, televisioni... luoghi che non hanno identità, in quanto di transito e transitori, e sia perché la maggior parte di essi non sono stati fatti né ad arte, né con arte. Per questo non si può negare che quando alcuni di questi sono realizzati in collaborazione con gli artisti smettono di essere dei non luoghi per diventare dei luoghi. Forse ciò è un aspetto che può costituire una delle risposte al nostro interrogativo sul senso e necessità dell'arte che qui ha trovato in questi dieci anni una realizzazione oontinua e concreta. Si fa ciò per continuare a indagare le ragioni profonde e originarie dell'arte, ma in maniera diversa per chiarire a questo punto dobbiamo riandare anche alla storia.

Quella della storia sembra essere una condanna dalla quale noi italiani non possiamo fuggire ma che, tuttavia possiamo tentare di volgere a nostro favore. Sappiamo, infatti che in Toscana tutto viene girato in direzione dell'arte per cui tutto diventa disegno o disegnato dall'arte e quindi anche il paesaggio, si parla infatti più in generale di "paesaggio toscano" e più in particolare di "paesaggio senese" addirittura i colori assumo il nome dal paesaggio con "terra di Siena"; infatti in Toscana anche il paesaggio diventa un'immagine (Lorenzetti), o la scultura assume valore di canone (Michelangelo), tutto, anche la natura qui assume il valore portato dalla cultura, la cultura dell'arte. Per cui è interessante porsi qualche altra domanda: cosa succede e perché c'è la necessità di inserire in luoghi cosi altamente caratterizzati delle opere d'arte contemporanea? Non si rischia in tal modo di produrre un cortocircuito che manda in overdose i luoghi stessi in cui avvengono questi sposalizi? Una risposta convincente la possiamo trovare nelle opere e nella relazione che le opere instaurano con i contesti nei quali vengono inserite, perché la loro collocazione non è una scelta arbitraria, in quanto gli artisti segnano con i loro lavori non un luogo a caso ma un luogo in particolare, opere pensate per questo e che contribuisce a dare forza al paesaggio e al contesto sociale, rafforzando l'idea di luogo.

Qualche parola va detta anche sulla questione del rapporto arte e società - e quindi arte e vita - e sull'ingenuità di molti artisti, curatori, ecc. per cui ciò sia risolvibile con una fotografia di una situazione di disagio nel senso che in questo caso l'artista ci mette di fronte a un'opera cosiddetta "sociale". Non è così, in quanto sociale vuol dire un'altra cosa, per esempio che la Gioconda, pur essendo un "semplice" ritratto, è una delle opere più pubblicamente "sociali" che io conosca. Sì, perché l'arte per parlare alle persone e quindi per essere pubblica non può essere un "pannello" didattico, un semplice commento alla realtà, ma deve attivare un mistero che parla sia alla superficie che alla profondità, a ciò che anche il cristianesimo di Padre Pio e il comunismo di Marx, la leggerezza di Budda e la concretezza di Cartesio, la ciclicità dell'induismo e l'idealità di Platone, la totalità dell'ebraismo e la relatività di Einstein, addirittura la radicalità dell'islamismo e la psicanalisi di Freud e Jung non sono ancora riusciti a dare risposte. È ovvio che l'arte, qualunque essa sia, nasce ponendosi e ponendoci domande pubbliche e private, e che agisce al meglio quando non è un manifesto, una didascalia della vita, ma è nella vita stessa.

Questo è ciò che cerco nell'arte e penso che la stessa idea sia quella degli artisti con cui mi trovo a lavorare, e questo accade anche quando le apparenze sembrano contraddire questo assunto. Con ciò voglio dire e concludere che l'arte non è mai gregaria della vita e che questo tipo di esposizioni nei luoghi della vita reale stanno a imostrare in maniera ancora più evidente che l'arte torna continuamente all'arte.

Giacinto Di Pietrantonio

Jan Hoet è nato il 23 giugno 1936 a Lovanio, in Belgio ed è deceduto il 27 febbraio 2014 a Gand. È stato una figura di spicco nel panorama artistico contemporaneo, noto per aver fondato nel 1975 il Museum voor Hedendaagse Kunst a Gand, che nel 1999 è stato rinominato Stedelijk Museum voor Actuele Kunst (S.M.A.K.). Nel 1992, Hoet ha ricoperto il ruolo di direttore artistico di Documenta IX a Kassel, una delle più prestigiose esposizioni internazionali di arte contemporanea. Una delle sue iniziative più celebri è stata "Chambres d'Amis" nel 1986, in cui ha convinto oltre 50 proprietari di case a Gand a trasformare le loro residenze private in spazi espositivi per artisti contemporanei, integrando così l'arte nella vita quotidiana della comunità. Dopo il suo ritiro dal S.M.A.K. nel 2003, Hoet è diventato direttore artistico del museo MARTa a Herford, in Germania.

Giacinto di Pietroantonio è un critico d'arte, curatore e docente italiano, nato l'8 agosto 1954 a Lettomanoppello, in provincia di Pescara. Dal 1986 al 1989 è stato redattore della rivista d'arte contemporanea "Flash Art", diventandone vicedirettore dal 1989 al 1992. Nel 2000 è diventato direttore della GAMeC - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, posizione che ha mantenuto fino al 2017. Durante questo periodo, ha anche insegnato presso l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel 2003 è stato tra i fondatori dell'AMACI (Associazione Musei d'Arte Contemporanea Italiani) e ha diretto la rivista "I Love Museums". Nel 2021 ha lanciato una rubrica d'arte online chiamata "Il Marciapiede dell'Arte", con visite agli atelier di artisti italiani e internazionali.

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Laura Cherubini, Curator, 1996

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Florian Matzner & Angela Vettese, Curators, 1998-1999