Jan Hoet & Giacinto di Pietrantonio, Curators

Una conversazione tra Joan Hoet e Giacinto di Pietrantonio

J.H.: In tutta la storia dell’arte troviamo degli esempi di artisti che lavorano in modo tautologico sull’arte, riflettendo sul modo di importare il passato nel presente. Picasso ha fatto questo con “Las Meninas”, di Velasquez, con El Greco, con l’arte iberica, con l’arte africana, ha assunto tutta la storia dell’arte e l’ha importata con il suo stile nella sua epoca. Allora, mi domando se non c’è anche una contraddizione in questo tentativo di vedere l’arte come autonoma. Penso che ciò non è possibile e che sia un paradosso.

G.D.P.: Riflettere il passato nel presente è oggi divenuta norma. L’epoca postmoderna, infatti, si caratterizza per questo sguardo retrospettivo in tutte le direzioni e in tutte le discipline.

J.H.: Anche nella moda, se prendiamo ad esempio, l’evoluzione di stilisti come Paco Rabanne, Armani, Versace, vediamo che questi prendono qualcosa del passato e le mettono in un colore differente, in una forma di celebrazione. Una celebrazione personale e storica, e ognuno ha il suo proprio interesse: c’è l’epoca dell’espressionismo tedesco, del cubismo, dell’arte primitiva a l’epoca di Van Ghog c’era un interesse per l’Asia...

G.D.P.: Sì, nel perido impressionista soprattutto per il Giappone.

J.H.: Ciò che hanno fatto gli impressionisti è di materializzare i giapponesi, concretizzarli, quello che era una riproduzione diviene un’esperienza reale della pittura. Allora, capisco quando Picasso dice: “L’arte negra? Non la conosco affatto.” Questo è quello che io chiamo il paradosso. E ciò è vero, perché non è l’arte negra, ma Picasso, mentre nell’epoca postmoderna è piuttosto il passato che vediamo.

G.D.P.: L’epoca postmoderna è un un ’epoca...

J.H.: Della frammentazione.

G.D.P.: Si, ma anche e soprattutto dell’informazione e della comunicazione, mentre nella modernità si era in un tempo della sperimentazione. Oggi siamo passati da un’estetica della sperimentazione ad un’estetica della comunicazione. Ed è per questo che gli artisti utilizzano dei segni che già conosciamo, un alfabeto che comprendiamo, ma non per copiare il passato, piuttosto per riscrivere altre storie, per parlare con esso di altri sentimenti, per spargere energie diverse. Difatti, il dialogo con il passato di de Chirico, soprattutto nel periodo metafisico, è monolitico, personaggi e spazi non ammettono frammentazioni, anzi sono assoluti, “originari” li definiva l’artista, come assoluta è la modernità con il suo desiderio di raggiungere le strutture originarie dell’essere. Ma proprio, perché non conosciamo più, non esperiamo questa originarietà ci si è trovati nell’impossibilità di comprenderla e assumerla. Tale difficoltà, mostrata dalle opere di de Chirico, esprime proprio l’impossibilità o il rifiuto a comunicare in modo non differente da quelle di altri artisti suoi contemporanei apparentemente diversi, ma simili negli intenti sperimentali come ad esempio Malevitch e Duchamp. Infatti, credo che non ci sia nessuna differenza tra il rifiuto di parlare de “Le muse inquietanti” di de Chirico, il “Quadrato nero” di Malevitch e la “Ruota di bicicletta” di Duchamp. Si tratta del paradosso della modernità che voleva andare nella vita con una lingua nuova che si stava costruendo, sperimentando, una lingua che appariva incoprensibile, ma che ha avuto bisogno di un periodo di maturazione per essere appresa. Oggi noi non abbiamo solo conoscenza della modernità, ma ne facciamo esperienza a livello di massa, proprio perché questa, fondendosi con linguaggi premoderni, hanno dato vita ad una sorta di esperanto che parla, comunica a tutti.

J.H.: C’è un rilavorare la storia come strategia e tattica di sopravvivenza.

G.D.P.: Ma anche passare da un atteggiamento sacerdotale a uno più laico. Oggi l’artista non si sente più mago, stregone, scienziato, dispensatore di verità assolute, o meglio non può vivere un atteggiamento colonialista. Picasso, quando dice di non conoscere l’arte negra rivela la sensibilità dell’epoca in cui viveva, un periodo ancora coloniale che credeva nell’assolutismo occidentale. Oggi, già da parecchio tempo, questo non è più possibile, come non è possibile cercare l’autenticità in viaggi in paesi lontani ed esotici, perché è il concetto stesso di lontananza, di esotico, oltre che di originario ad essere in discussione. Dopo la frantumazione dell’Est e dopo che l’Oriente e il Sud del mondo dilagano in Occidente, tutto ha assunto una forma meticcia, niente è più, originale, proprio perché si sono mescolate tante origini. Sopra dicevi che Picasso rilavora il passato nel suo stile, ma per gli artisti odierni ciò non ha più senso, perché non hanno nessun problema a rilavorare il passato, il presente e il futuro con lo stile proprio e degli altri. Ciò ha fatto si che la realtà passasse dal linguaggio sperimentale della modernità coloniale a quello comunicazionale della postmodernità. Possiamo dire che gli artisti del nostro tempo stanno a quelli del periodo moderno come uno scienziato sta alle macchine che i suoi studi producono. Difatti, le sue ricerche, calcoli, formule sono incomprensibili ai più, mentre la società si serve di strumenti che da questi studi derivano. Per cui, la differenza tra ieri ed oggi tra Duchamp e Warhol, ad esempio, è quella che corre tra Marconi e la televisione, dove le ricerche del primo hanno portato anche alla realizzazione della seconda: ma possiamo dire se l’uno sia meno importante dell’altra?. Ciò l’aveva ben compreso ed espresso Andy Warhol quando diceva di voler essere una macchina, perché molto cosciente di questo passaggio dal mondo della creazione sperimentale a quella della creazione comunicazionale. Difatti, il postmoderno ha molti detrattori, perché guardano tale superfice, questa pellicola di fine secolo con superficialità non capendo che se ti hanno dato il computer devi imparare ad usarlo anche se lo critichi. Infatti, oggi gli artisti producono delle opere: quadri, sculture, installazioni, eccetera immediatamente riconoscibili, comunicabili direi sia che si rifanno al Novecento, sia che guardano all’Arte Povera. È di questo che parlano le opere di Salvo, di una stratificazione storica, dove l’apparente semplicità della sua pittura, nasconde la complessità della storia e dell’esperienza di una visione concettualmente raffinata, è una sorta di macchina di verità, una trappola per gli sciocchi che credono che la superficie sia superficialità.

J.H.: E sono anche oggetti di sopravvivenza, prendiamo le connotazioni dell’arte per situarle, tramite la comunicazione, in un mondo che si sente inscuro. D’altra parte gli artisti cercano di fare qualcosa che corrisponde con ciò che si fa fuori dell’arte e allo stesso tempo riferendosi all’arte, perché l’insicurezza è talmente grande che non si può essere senz’arte, come i filosofi non possono essere senza filosofia, come non si può essere senza la comunicazione con gli altri. All’epoca della modernità vi era, ad esempio nella medicina, una sperimentazione autonoma, ma senza comunicazione, mentre oggi ogni esperimento deve essere comunicato per essere sicuri.

G.D.P.: Potremmo dire che oggi, alla fine di un secolo e di un millennio, siamo in un angolo tra ricerca di sicurezza nel passato e condizione di panico esistenziale del presente, ma anche nel riniziare, per uscire dalla crisi, a guardare verso il futuro, perché a seconda di dove si decide di stare nei confronti dell’angolo storico-sociale noi possiamo agire nella vita. Se siamo solo al suo interno siamo nell’impossibilità di muoverci, ma se ci mettiamo all’esterno, ci troviamo con la ponta rivolta in avanti, propositivamente verso il nuovo millennio. Ed è proprio questa ambivalenza che genera il desiderio di comunicare alla ricerca del consenso nel momento in cui la società si trova in un angolo...

J.H.: Per essere amati, perché l’artista è un essere umano asociale, ma che ha bisogno di essere amato. Quindi, egli utilizza codici psicologici a questo fine.

G.D.P.: Ma per entrare più specificamente in questa mostra “Arte all’arte”, penso che essa non voglia parlare solo dell’arte che guarda l’arte o perlomeno io non vi vedo solo questo, ma il fatto che l’arte contemporanea deve essere mostrata anche in posti differenti dal museo d’arte contemporanea che è un luogo separato. C’è anche l’idea che tutta l’arte è contemporanea e che quando essa si manifesta non ha tempo storico. Difatti, arte che guarda l’arte si realizza in ogni opera, anche in quella che apparentemente la esclude. In questo l’urinatoio di Duchamp è un buon esempio, perché chiamando quest’opera “Fontana” egli la pensava e la metteva in relazione, anche se in modo ironico, con tutte le altre fontane da quella di Trevi a quelle di Versailles e allo stesso tempo non sfugge il rapporto con “la donna al bagno” di Ingres. Ma per far questo metteva un oggetto banale in un museo o in una galleria e per ciò che dico che “Arte all’Arte” va vista anche e soprattutto come metodo di esposizione, cioè esporre l’arte contemporanea in luoghi caratterizzati dall’arte del passato, questo passato che oggi ritorna. Infatti, è cosa diversa mostrare un’opera d’arte contemporanea tra le pareti bianche della galleria che in un museo archeologico Sol LeWitt, in una pinacoteca d’arte antica Salvo, in una chiesa Barocca Kapoor, in una rocca medievale Zorio come in questa occasione. Tu nel 1986 con ”Chambres d’amis” avevi cercato già di fare questo a Gand, da parte mia ci ho provato nel 1993 con “Territorio Italiano” operazione che continua ancora oggi, quella di installare opere contemporanee nel territorio. Forse non è un caso che la prima opera ad essere installata nel settembre del 1993 fu quella di Sozo Shimamoto sulle torri Salvucci di San Gimignano, grazie al contributo della galleria Continua che oggi promuove “Arte all’Arte”.

J.H.: Si, ma allo stesso tempo c’è una sfida con la storia, come l’arte contemporanea si rapporta alla storia senza perdersi e dall’altra parte ha qualcosa di attuale che deve trovare un’armonia. Poi c’è questo rapporto con il luogo, con il sito che è stato inaugurato dagli artisti dell’Arte Povera, una modalità artistica specificatamente italiana.

G.D.P.: Certamente, ma facendo questo essi si rapportano anche alla vita e non solo alla storia dell’arte, pensa a Zorio con le sue sculture che utilizzano elementi energetici, movimenti, reazioni chimiche, un insieme complesso che fanno pensare a mondi originari ad un passato lontanissimo che va al di là della storia, parlando dell’energia vitale che fluisce in noi e nel nostro ambiente da secoli.

J.H.: Dalla preistoria, mentre c’è Jessica Diamond che lavora con le ombre, perché a San Gimignano le torri sono talmente forti che proiettano ombre lunghissime, là le ombre dell’artista sono in marmo e si riferiscono a de Chirico.

G.D.P.: Un altro segno di relazione con il passato...

J.H.: Infatti, non è per caso che de Chirico ha fatto il suo lavoro in Italia, in un Paese dove la luce e le ombre sono così forti e definite.

G.D.P.: Ma tornando alla modalità espositiva non è solo un ritorno all’arte

J.H.: Assolutamente, perché Merz dice che: “Quando in una casa faccio un tavolo, il tavolo deve diventare una scultura e la scultura un tavolo”, dunque c’è l’ambivalenza e l’ambiguità della scelta. D’altra parte non si può negare il valore del contesto. Ad esempio, quando si fa o si colloca un’opera in un contesto non neutrale come il museo, ma in un un luogo così forte e caratterizzato come San Gimignano l’artista deve trovare la chiave giusta per un’opera fortemente ambigua che lo faccia risaltare che non è imitazione, ma mimesi, perché se dipingi un’ombra non è niente, è meglio quella vera. Allora l’ombra deve trovare una sua autonomia anche quando è inserita nel contesto sociale e non isolata come in un museo. Cingolani che istaura un dialogo con il sacro delle chiese, realizzando alcune vetrate per delle case, in cui i gesti, e le smorfie delle figure insieme alla loro dislocazione in giro per la città, rappresentano una risoluzione del paesaggio urbano italiano di sempre, in cui sacro e profano mischiandosi e scambiandosi di posto generano un contesto "spostato ed impreveibile".

G.D.P.: Anche Kapoor ha scelto una chiesa a Volterra per le sua opera, qui vi è un grande blocco di marmo bianco dove solo il lato che guarda la facciata di San Giusto risulta levigata egli altri sono lasciati ruvidi mostrando la materia che si trasforma in energia, come spirito prima di entrare in chiesa, anche se so bene che Kapoor non ama che si parli di aspetti animistici della sua arte.

J.H.: Si, ma bisogna comprenderlo anche nel suo paradosso. E lo stesso quando Kaprow, che abbiamo incontrato oggi qui a Como alla Fondazione Ratti, ride se diciamo che l’arte può cambiare il mondo, ma io sono sicuro che può farlo a condizione che noi ci apriamo all’arte. Ma a queste affermazioni lui ride e scherza, dice di no, ma io sono sicuro che lui vorrebbe fosse così, come Kapoor nel suo intimo sente la forte magia che sprigionano le sue opere.

G.D.P.: Sol LeWitt farà una scultura di elementi modulari simile all’opera presentata alla Biennale di Venezia.

J.H.: È una struttura con fatto con un calcolo moderno.

G.D.P.: Ma vi possiamo vedere anche un elemento di relazione con il gotico, l’opera di Venezia ricordava molto una chiesa gotica essenzializzata nella sua struttura. D’altronde è stato dimostrato la ricchezza del calcolo matematico e dei rapporti proporzionali che sottostanno all’architettura gotica, come all’architettura in generale che è una disciplina con la quale Sol LeWitt ha un rapporto e dialogo continuo.

J.H.: Si, è giusto e si può anche vedere come un americano in Europa lavori in maniera diversa.

G.D.P.: Ma per lui è qualcosa che accade gà da tempo, perché, abitando molti mesi all’anno a Spoleto, si vede come ha assorbito l’arte italiana. Se guardiamo i suoi walls paintings vediamo che il modo di trattare e il tipo di colori ricordano quelli degli affreschi medievali umbri, come si stabilisce un rapporto con Giotto, osservazione che è stata d’altronde già fatta.

J.H.: Infatti, prima era solo razionalità e deduzione, ora, da quando abita anche in Europa si vede che c’è più calore nel suo lavoro. Lavora con la luce, con le forme che conosciamo dalla storia dell’arte: la piramide ad esempio.

G.D.P.: Che si è sommata all’estetica della macchina, della serialità modernista.

J.H.: Tuttavia, bisogna aggiungere che l’assenza di un sistema per l’arte contemporanea e la forte sedimentazione storica ha dato un vattaggio agli italiani, ciò li ha portati a dover utilizzare i luoghi che potevano avere e che sono luoghi accidentali.

G.D.P.: Difatti, Martegani fa una guida con ristoranti, luoghi turistici, percorsi alternativi.

J.H.: Si, una topologia.

G.D.P.: Una topologia, che è un modo italiano di fruire l’arte, ma soprattutto di vivere e mostrare luoghi della vita che al tempo stesso finiscono per essere anche luoghi dell’arte, dato l’alta sedimentazione artistico-territoriale presente in Italia. Qui, sarebbe stato impossibile il gesto di Duchamp, perché è la realtà stessa ad essere caratterizzata esteticamente, si può dire che tutto è contestualizzato in un luogo d’arte.

J.H.: Ed è per questo che in Italia è difficile avere una letteratura teatrale ad eccezione di pochi come Pirandello, perché il teatro è nella vita ed è difficile competere con essa.

G.D.P.: Più in generale si può dire che viviamo, non solo in Italia, in una realtà, dove la dimensione estetica è molto elevata, ma mentre in Italia è quella relativa all’arte del passato in relazione al territorio, all’architettura, al paesaggio; l’arte del ventesimo secolo si è diffusa mondialmente più nel comportamento e nelle mode, mi riferisco, ad esempio, alla musica futurista, oramai assorbita nella musica pop-rock, oppure pensiamo alla presenza dell’espressionismo e dell’informale nel cinema di Antonioni e a quella del pop in Tarantino e da loro alle masse. Questo bisogno di andare nella realtà mi sembra molto forte in questi anni, un desiderio che ha portato molti artisti, critici, galleristi ad uscire fuori dai luoghi del sistema dell’arte. Cosa vuol dire tutto ciò? Significa che trovarsi in una fase postmoderna e postindustriale, vuol dire pure che si è entrati in un’epoca postmuseale. Difatti, modernità, industrialesimo e museo nascono nella stessa epoca come espressione della nuova classe sociale chiamata borghesia e che esprime nel collezionare l’idea del possesso e dell’accumulo tipica del capitale. Oggi la sua crisi, che ha avuto il colpo di coda negli anni Ottanta nell’incapacità non solo di poter fornire più valori guida, ma di non riuscire più a controllare i flussi economici, fa si che all’arte non è più sufficiente il sistema dell’arte, come si affermava negli anni Ottanta, ma ha bisogno, staccandosi dal sistema, di tornare all’arte e quindi alla reltà della vita.

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Achille Bonito Oliva e James Putnam, Curators, 2004

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Florian Matzner & Angela Vettese, Curators, 1998-1999